Category: arte

04
Jul

‘Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? ‘ F.N.

Nelle pieghe del linguaggio, nelle pieghe della pelle, nelle piaghe della memoria, si concede inerte la verità, come l’Eroina drogata d’eternità, sensibile solo al bacio che per ringraziarti ti dona un risveglio.

E’ necessario metterci la bocca, le mani, le ossa. Darsi in pasto ai leoni da giardino, oziare nelle galere del silenzio, fissare l’orizzonte mentre l’imbarcazione danza la sua deriva.

E’ remoto ed è una eco dal futuro, questo presente di ritorni.

16
Jun

‘L’insolente promessa sciocca, vacua, solenne, di bastare a sé’. CSI

‘Perché finché sei cattivo, non sei addomesticato’.

E. C.

Ci vorrebbero lenti in grado di leggere il vuoto, adatte a identificare quella materia impalpabile (solo a noi, animali piuttosto confusi) che costituisce la sua speculare sostanza invisibile, il presunto ‘negativo’ di ogni cosa. Il silenzio tra i suoni, l’ira tra i sorrisi.

Non essere addomesticati a qualcosa, a qualcuno

vuol dire essere addomesticati a qualcun’altro, a qualcos’altro che,

da tiranno più elegante, nasconde il volto tra il consenso di coloro che lo assecondano con un equilibrio interiore ben regolato da risentimento sempre appena sfornato.

Non posso escludere che l’anatomia di alcuni sia non più essenziale, per come la conosciamo, ma ben accessoriata di quel sistema di controllo che si conserva preziosamente  invisibile.

Museruola, 2016

gesso ceramico, garza, pelle, ferro

08
Jun

‘La lavorazione degli oggetti contro la materia è una sorta di psicanalisi naturale e offre possibilità rapida di guarigione, poiché la materia non ci consente di ingannarci sulle nostre forze’. G.B.

Un’aderenza alle cose la chiedono la cose stesse, il corpo danza con loro un corteggiamento che volteggia di epoca in epica attraverso geologie di pentimento e glaciazioni d’odio.

Seduta sul più lussioso altare troneggia in dubbioso spasmo la frustrazione: come non limarsi i denti a misura di pasto?

Elegia Duinese n.1, 2016

creta, ametista

12x15x10 cm

LA PRIMA ELEGIA

Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere
degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte
mi farebbe morire. Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere
ancora,
lo ammiriamo anche tanto, perch’esso calmo, sdegna
distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.
E così mi rattengo e il richiamo di oscuri singhiozzi
lo soffoco in gola. Ah, di chi mai
ci possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no,
e i sagaci animali, lo notano che, di casa nel mondo
interpretato,
non diamo affidamento. Ci resta, forse,
un albero, là sul pendio,
da rivedere ogni giorno;
ci resta la strada di ieri,
e la fedeltà viziata d’un’abitudine
che si trovò bene con noi e rimase, non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento pregno di
cosmico spazio
ci smangia la faccia , a chi non resterebbe la sospirata,
che soavemente delude, e che incombe pesante al cuore
solitario? Che sia forse più lieve agli amanti?
Ah, loro, se la nascondono soltanto, un con l’altro, la
loro sorte.
Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto
agli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
nell’aria più vasta voleranno più intimi voli.
Sì, certo, le primavere avevano bisogno di te. Qualche
stella
s’aspettava che tu la rintracciassi. Montava
un’onda dal passato, in qua, o
mentre tu passavi sotto una finestra aperta
si donava un violino. Tutto questo era compito.
Ma lo reggevi tu? Così sempre distratto d’attesa,
come se tutto t’annunciasse un’amata? (E dove la
vorresti rifugiare se i grandi, strani pensieri
in te vengono e vanno
e spesso si stanno, la notte?)
Ma se ti struggi così, canta le innamorate. Certo,
non è ancora abbastanza immortale il loro sentimento
famoso.
Canta di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi, che ti
parvero tanto più amabili delle placate. Riprendila
sempre l’irraggiungibile celebrazione;
pensa: l’eroe perdura, financo la morte per lui
fu soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma l’eroine d’amore se le riprende in sé l’esausta Natura
come se non ci fossero forze due volte,
per compiere questo. Hai cantato abbastanza
di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
cui sfugga l’amato, all’esempio esaltato
di questa innamorata, senta: posso essere anch’io
come lei?
Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
diventar più fecondi per noi? non è tempo che amando,
ci liberiamo dall’essere amato, lo reggiamo fremendo:
come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.
Voci, voci. Ascolta, mio cuore come soltanto i Santi
ascoltarono un giorno: il grande richiamo
li alzava dal suolo; ma essi, impossibili,
restavano assorti in ginocchio:
così ascoltavano. Non che tu possa mai reggere
la voce di Dio. Ma lo spiro ascolta,
l’ininterrotto messaggio che da silenzio si crea.
Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te.
Dove entrassi tu mai nelle chiese
di Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro
Destino?
O ti si imponeva una scritta, sublime,
come ieri la lapide in Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve
quella parvenza d’ingiusto che turba un po’, talvolta,
il moto puro dei loro spiriti.
Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. Ma i vivi errano, tutti,
ché troppo netto distinguono.
Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno
se vanno tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
sempre trascina con sé per i due regni ogni età,
e in entrambi la voce più forte è la sua.
Infine, non han più bisogno di noi quelli che presto la
morte rapì,
ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di sì grandi misteri, quante volte da lutto
sboccia un progresso beato : potremmo mai essere,
noi, senza i morti?
Sarebbe vano il mito, che un giorno nel compianto di
Lino
la prima musica, ardita, pervase arida rigidezza,
e che sol nello spazio sgomento, a cui un fanciullo quasi
divino
ad un tratto e per sempre mancava, il vuoto entrò in
quella
vibrazione che ora ci rapisce e ci consola e ci aiuta.

R. M. Rilke

05
Jun

Vanitas Vanitatum

Le cose importanti si nascondono tutte in superficie e tu non le guardi, preso come sei a sentirtene guardato.

Un sussurro verticale ti precipita all’ascolto ma non resisti alla vertigine di un’altra perduta occasione perché la nostalgia della vita pulsa alle tempie più della vita stessa e nel suo riflesso più lieve la verità di turno si blandisce.

Così seguiti a sondare albe e tramonti, roseti e rosari, a riparo da quel segreto che, nello sguardo, tace paziente il tuo gatto.

Rebecca Horn, Museo Madre, Napoli