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16
Dic

Il danno_mostra personale allo Studio Stefania Miscetti, Roma

LO STUDIO STEFANIA MISCETTI è lieto di presentare il danno, seconda mostra personale di Silvia Giambrone presso gli spazi della galleria, costituita da una serie di opere inedite – il lightbox Dollhouse (2018), le sculture Il danno (2018), Mirrors (2018) e Frames (2018) e i collage Icone (2017-2018) – realizzate appositamente per l’esposizione.

Nell’immaginario dell’artista, il concetto di “danno” fa riferimento a una lesione provocata in maniera silenziosa, subdola e profonda, non necessariamente fisica o visibile, ma non per questo meno determinante per l’individuo che l’ha subita. Luogo di eccellenza per l’esercizio di questa forma di violenza, è l’ambiente domestico. Spazio reale tanto quanto psicologico, il domestico, il privato, distaccandosi da una concezione che lo associa a ciò che per definizione dovrebbe essere affidabile e familiare, diviene quindi la sede dove esercitare persino un’educazione alla coercizione, un soggiogamento che diviene linguaggio e sistema, agito e concesso, tanto dalla vittima che dall’esecutore. In tale contesto, gli oggetti, spesso muti osservatori delle dinamiche relazionali instauratesi, alienati dal loro contesto e dalla loro funzione, assumono la capacità di essere riattivati, sia nel loro valore estetico sia nella loro qualità testimoniale. Le opere esposte, elevate allo statuto di oggetti emblematici, non solo ci costringono a prendere visione di tali meccanismi di sopruso e a diventare a nostra volta consapevoli del ruolo che assumiamo in quanto testimoni e complici, ma ci invitano anche a riflettere sulle diverse declinazioni della violenza e sulle possibilità che essa stessa prospetta. In questo senso, per quanto si offra apparentemente come confine invalicabile, lo spazio della violenza può divenire terreno fertile sul quale, in maniera dolorosa e feroce, si prepara e rende possibile una reazione catartica e liberatoria.

“Chi ha subito un danno è pericoloso, perché sa di poter sopravvivere.”
Josephine Hart, Il danno, 1991 – Il danno, 1992 film diretto da Louis Malle.

STUDIO STEFANIA MISCETTI is delighted to present il danno (The Damage), the second solo exhibition of Silvia Giambrone’s work at the gallery, featuring a series of new pieces created specifically for the exhibition. These include the lightbox Dollhouse (2018), several sculptures – Il danno (2018), Mirrors (2018) and Frames (2018) – and the collage Icone (Icons) (2017-2018).

In the artist’s imaginary the notion of “damage” refers to a silently and deceitfully inflicted wound, which cuts very deep. It may not be physical, or visible to the eye, but not for all that less significant for the individual subjected to it. The preeminent environment in which this form of violence is enacted is the domestic sphere. As much a psychological as a real space, by breaking away from a concept which should by definition be connected to the reliable and familiar, the domestic, private world becomes the site of an exercise in coercion – an education in subjugation that becomes both language and system, one conceded to and acted on by both victim and perpetrator. In this context, rather than being the mute observers of the relationship dynamics established, alienated from their context and purpose, objects acquire the potential for renewed meaning, whether in terms of aesthetic value or their ability to bear witness. The pieces on show thus acquire an emblematic status, forcing us not only to recognise the mechanisms of oppression – and become aware, in our turn, of the role we play as witnesses or accomplices – but inviting us to reflect on the various gradations of violence, and the possibilities it can reveal. In this sense, although it may appear to present itself as an insurmountable barrier, the space in which violence exists can become the fertile terrain on which, fierce and painful as it may be, the foundations are laid for a cathartic and liberating reaction.

“Those who have been damaged are dangerous, because they know they can survive.”
Josephine Hart, Damage, 1991 – Damage, 1992 film directed by Louis Malle.

27
Mag

Per amore di un uomo. J.L.

Come te lo spiego il diritto che l’amore rivendica sulla violenza? Come te lo spiego che la violenza sente di dovervi acconsentire?

“Aveva un modo brusco di prendere tra le mani la testa di Buk appoggiandovi sopra la propria e scrollandola avanti e indietro mentre lo chiamava con insulti che erano parole d’amore. Buk non conosceva una gioia più grande di quel brusco abbraccio e di quel mormorio di imprecazioni e ad ogni scrollare aventi e indietro pareva che il cuore gli balzasse fuori dal petto tanto era egli estasiato, e quando dopo, lasciato libero si drizzava in piedi con la bocca ridente e gli occhi loquaci e la gola che vibrava di suoni inarticolati e restava immobile in quella posa, John Thornton esclamava con venerazione : buon Dio! Ti manca solo la parola!

Buk aveva un modo suo di esprimere l’affetto, che quasi arrivava alla violenza. Spesso prendeva la mano di Thornton e la stringeva tanto che per un po’ i segni dei suoi denti restavano sulla carne. E come Buk comprendeva che le imprecazioni erano parole d’amore così l’uomo comprendeva che questa specie di morso era una carezza. Solitamente tuttavia, Buk esprimeva il suo amore attraverso l’adorazione. Benché impazzisse di gioia quando Thornton lo toccava e gli parlava, non andava in cerca di questi segni di affetto, a differenza di Skeet che soleva ficcare il naso sotto la mano di Thornton per richiamare la sua attenzione fin quando quello non lo accarezzava, o di Nig che avanzava lento e impettito e appoggiava la grossa testa sulle ginocchia di Thornton, Buk si accontentava dell’adorazione a distanza. Restava accucciato per ore ai piedi di Thornton, guardando appassionato e attento dal sotto in sù, indugiando a studiare le linee del suo volto, seguendo con molto interesse ogni fuggevole espressione, ogni movimento o cambiamento d’aspetto. Oppure se succedeva che fosse sdraiato più lontano, di lato o alle sue spalle, osservava il profilo dell’uomo e le mosse casuali del suo corpo ed essi vivevano in un tale stato di comunione che spesso lo sguardo di Buk attirava l’attenzione di John Thornton, il quale volgeva la testa e gli restituiva lo sguardo senza parole, con l’affetto che gli brillava negli occhi così come brillava negli occhi di Buk. Per molto tempo dopo essere stato salvato, Buck mal sopportòche Thornton s’allontanasse dalla sua vista. Da quando lasciava
la tenda a quando vi rientrava, Buck seguiva i suoi passi. Ilcontinuo mutamento di padrone da quando era giunto nel Nord, aveva fatto sorgere in lui il timore che nessun padrone fosse duraturo.
Ed egli paventava che Thornton uscisse dalla sua vita come Perrault e François e il mezzo-sangue scozzese. Perfino di notte, in sogno, era ossessionato da questa paura; e allora balzava dal sonno e scivolava nel freddo fino all’apertura della tenda, restando lì ad ascoltare il suono del respiro del suo padrone.
Ma nonostante questo grande amore per John Thornton, che sembrava rivelare l’influenza della mite civiltà, I’impeto del primitivo che il Nord aveva risvegliato in lui rimaneva vivo e attivo. Egli possedeva la fedeltà e la devozione, creature del fuoco e del tetto; e tuttavia manteneva la sua selvatichezza e la
sua astuzia. Era una creatura della foresta, venuta dalla foresta per sedersi davanti al fuoco di John Thornton, piuttosto che un cane del mite Sud segnato dalle impronte di generazioni civili. Per il suo
grande amore non avrebbe mai rubato nulla a quell’uomo, ma per qualsiasi altro uomo, in un altro accampamento, non avrebbe esitato un attimo; e l’astuzia con cui sapeva rubare gli permetteva di evitare di lasciarsi cogliere. Aveva il muso e il corpo segnati dai denti di molti cani, e sapeva combattere ancor
più fieramente che mai, e con maggiore accortezza. Skeet e Nig erano troppo bonari per azzuffarsi con loro, e inoltre appartenevano a John Thornton; ma i cani stranieri, di qualsiasi razza e valore, dovevano riconoscere subito il dominio di Buck o trovarsi a combattere per la vita con un terribile avversario. Buck era senza pietà. Aveva conosciuto bene la legge del bastone e della zanna, e mai trascurava un vantaggio o si ritraeva davanti ad un nemico che aveva avviato sulla strada della morte. Aveva preso lezione da Spitz, e dai principali cani combattenti della polizia e della posta, e sapeva che non c’era via di mezzo. Doveva dominare o essere dominato; e mostrare pietà sarebbe stato debolezza. La pietà non esisteva nella vita dei primordi. Veniva considerata come paura, e questo malinteso significava
morte.

Uccidere o essere ucciso, mangiare o essere mangiato, era questa la legge; e a questo comandamento che sorgeva dalle profondità del tempo egli prestava obbedienza. Era più vecchio dei giorni che aveva vissuto, dei respiri che aveva respirato. Riuniva il passato al presente, e l’eternità dietro di lui palpitava in lui in un ritmo potente insieme al quale egli oscillava al pari delle maree e delle stagioni. Sedeva presso il fuoco di John Thornton: cane dal petto largo, dalle bianche zanne, dal lungo pelo; ma dietro di lui vi erano le ombre di cani di ogni specie, metà lupi e lupi selvaggi, che lo incalzavano e lo sollecitavano assaporando il cibo che lui mangiava, assetati dell’acqua che beveva, fiutando con lui il vento, ascoltando con lui e sussurrandogli i suoni della vita selvaggia nella foresta, suggerendogli i movimenti, dirigendo le sue azioni, sdraiandosi al suo fianco a dormire quando si accovacciava, sognando con lui e su di lui divenendo essi stessi l’oggetto dei suoi sogni.

Cosi imperioso era il richiamo di quelle ombre, che di giorno in giorno s’allontanavano da lui il genere umano e le sue pretese.”

09
Lug

‘Un simbolo, una rosa puo’ straziarti, e può ucciderti un suono di chitarra’ J.L.B.

In ritirata, Notte,

Disertano le stelle e il cielo, trafitto, riconta le sue ferite.

E’ la disciplina del buio.

 

04
Lug

‘Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? ‘ F.N.

Nelle pieghe del linguaggio, nelle pieghe della pelle, nelle piaghe della memoria, si concede inerte la verità, come l’Eroina drogata d’eternità, sensibile solo al bacio che per ringraziarti ti dona un risveglio.

E’ necessario metterci la bocca, le mani, le ossa. Darsi in pasto ai leoni da giardino, oziare nelle galere del silenzio, fissare l’orizzonte mentre l’imbarcazione danza la sua deriva.

E’ remoto ed è una eco dal futuro, questo presente di ritorni.

16
Giu

‘L’insolente promessa sciocca, vacua, solenne, di bastare a sé’. CSI

‘Perché finché sei cattivo, non sei addomesticato’.

E. C.

Ci vorrebbero lenti in grado di leggere il vuoto, adatte a identificare quella materia impalpabile (solo a noi, animali piuttosto confusi) che costituisce la sua speculare sostanza invisibile, il presunto ‘negativo’ di ogni cosa. Il silenzio tra i suoni, l’ira tra i sorrisi.

Non essere addomesticati a qualcosa, a qualcuno

vuol dire essere addomesticati a qualcun’altro, a qualcos’altro che,

da tiranno più elegante, nasconde il volto tra il consenso di coloro che lo assecondano con un equilibrio interiore ben regolato da risentimento sempre appena sfornato.

Non posso escludere che l’anatomia di alcuni sia non più essenziale, per come la conosciamo, ma ben accessoriata di quel sistema di controllo che si conserva preziosamente  invisibile.

Museruola, 2016

gesso ceramico, garza, pelle, ferro

08
Giu

‘La lavorazione degli oggetti contro la materia è una sorta di psicanalisi naturale e offre possibilità rapida di guarigione, poiché la materia non ci consente di ingannarci sulle nostre forze’. G.B.

Un’aderenza alle cose la chiedono la cose stesse, il corpo danza con loro un corteggiamento che volteggia di epoca in epica attraverso geologie di pentimento e glaciazioni d’odio.

Seduta sul più lussioso altare troneggia in dubbioso spasmo la frustrazione: come non limarsi i denti a misura di pasto?

Elegia Duinese n.1, 2016

creta, ametista

12x15x10 cm

LA PRIMA ELEGIA

Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, dalle schiere
degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte
mi farebbe morire. Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere
ancora,
lo ammiriamo anche tanto, perch’esso calmo, sdegna
distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.
E così mi rattengo e il richiamo di oscuri singhiozzi
lo soffoco in gola. Ah, di chi mai
ci possiamo valere? Degli Angeli no, degli uomini no,
e i sagaci animali, lo notano che, di casa nel mondo
interpretato,
non diamo affidamento. Ci resta, forse,
un albero, là sul pendio,
da rivedere ogni giorno;
ci resta la strada di ieri,
e la fedeltà viziata d’un’abitudine
che si trovò bene con noi e rimase, non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento pregno di
cosmico spazio
ci smangia la faccia , a chi non resterebbe la sospirata,
che soavemente delude, e che incombe pesante al cuore
solitario? Che sia forse più lieve agli amanti?
Ah, loro, se la nascondono soltanto, un con l’altro, la
loro sorte.
Non lo sai ancora? Getta dalle tue braccia il vuoto
agli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
nell’aria più vasta voleranno più intimi voli.
Sì, certo, le primavere avevano bisogno di te. Qualche
stella
s’aspettava che tu la rintracciassi. Montava
un’onda dal passato, in qua, o
mentre tu passavi sotto una finestra aperta
si donava un violino. Tutto questo era compito.
Ma lo reggevi tu? Così sempre distratto d’attesa,
come se tutto t’annunciasse un’amata? (E dove la
vorresti rifugiare se i grandi, strani pensieri
in te vengono e vanno
e spesso si stanno, la notte?)
Ma se ti struggi così, canta le innamorate. Certo,
non è ancora abbastanza immortale il loro sentimento
famoso.
Canta di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi, che ti
parvero tanto più amabili delle placate. Riprendila
sempre l’irraggiungibile celebrazione;
pensa: l’eroe perdura, financo la morte per lui
fu soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma l’eroine d’amore se le riprende in sé l’esausta Natura
come se non ci fossero forze due volte,
per compiere questo. Hai cantato abbastanza
di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
cui sfugga l’amato, all’esempio esaltato
di questa innamorata, senta: posso essere anch’io
come lei?
Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
diventar più fecondi per noi? non è tempo che amando,
ci liberiamo dall’essere amato, lo reggiamo fremendo:
come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.
Voci, voci. Ascolta, mio cuore come soltanto i Santi
ascoltarono un giorno: il grande richiamo
li alzava dal suolo; ma essi, impossibili,
restavano assorti in ginocchio:
così ascoltavano. Non che tu possa mai reggere
la voce di Dio. Ma lo spiro ascolta,
l’ininterrotto messaggio che da silenzio si crea.
Ecco fruscia qualcosa da quei giovani morti e viene a te.
Dove entrassi tu mai nelle chiese
di Roma o di Napoli, non ti parlava pacato il loro
Destino?
O ti si imponeva una scritta, sublime,
come ieri la lapide in Santa Maria Formosa.
Che vogliono da me? Ch’io debba rimuovere lieve
quella parvenza d’ingiusto che turba un po’, talvolta,
il moto puro dei loro spiriti.
Certo è strano non abitare più sulla terra,
non più seguir costumi appena appresi,
alle rose e alle altre cose che hanno in sé una promessa
non dar significanza di futuro umano;
quel che eravamo in mani tanto, tanto ansiose
non esserlo più, e infine il proprio nome
abbandonarlo, come un balocco rotto.
Strano non desiderare quel che desideravi. Strano
quel che era collegato da rapporto
vederlo fluttuare, sciolto nello spazio. Ed è faticoso
esser morti;
quanto da riprendere per rintracciare a poco a poco
un po’ d’eternità. Ma i vivi errano, tutti,
ché troppo netto distinguono.
Si dice che gli Angeli, spesso, non sanno
se vanno tra i vivi o tra i morti. L’eterna corrente
sempre trascina con sé per i due regni ogni età,
e in entrambi la voce più forte è la sua.
Infine, non han più bisogno di noi quelli che presto la
morte rapì,
ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente,
come dal seno materno. Ma noi, che abbiamo bisogno
di sì grandi misteri, quante volte da lutto
sboccia un progresso beato : potremmo mai essere,
noi, senza i morti?
Sarebbe vano il mito, che un giorno nel compianto di
Lino
la prima musica, ardita, pervase arida rigidezza,
e che sol nello spazio sgomento, a cui un fanciullo quasi
divino
ad un tratto e per sempre mancava, il vuoto entrò in
quella
vibrazione che ora ci rapisce e ci consola e ci aiuta.

R. M. Rilke

05
Giu

Vanitas Vanitatum

Le cose importanti si nascondono tutte in superficie e tu non le guardi, preso come sei a sentirtene guardato.

Un sussurro verticale ti precipita all’ascolto ma non resisti alla vertigine di un’altra perduta occasione perché la nostalgia della vita pulsa alle tempie più della vita stessa e nel suo riflesso più lieve la verità di turno si blandisce.

Così seguiti a sondare albe e tramonti, roseti e rosari, a riparo da quel segreto che, nello sguardo, tace paziente il tuo gatto.

Rebecca Horn, Museo Madre, Napoli

29
Mag

Salmo 91

[1] Tu che abiti al riparo dell’Altissimo
e dimori all’ombra dell’Onnipotente,

[2] dì al Signore: “Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio, in cui confido”.

[3] Egli ti libererà dal laccio del cacciatore,
dalla peste che distrugge.
[4] Ti coprirà con le sue penne
sotto le sue ali troverai rifugio.

[5] La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza;
non temerai i terrori della notte
né la freccia che vola di giorno,

[6] la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno.

[7] Mille cadranno al tuo fianco
e diecimila alla tua destra;
ma nulla ti potrà colpire.

[8] Solo che tu guardi, con i tuoi occhi
vedrai il castigo degli empi.

[9] Poiché tuo rifugio è il Signore
e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora,

[10] non ti potrà colpire la sventura,
nessun colpo cadrà sulla tua tenda.

[11] Egli darà ordine ai suoi angeli
di custodirti in tutti i tuoi passi.

[12] Sulle loro mani ti porteranno
perché non inciampi nella pietra il tuo piede.

[13] Camminerai su aspidi e vipere,
schiaccerai leoni e draghi.

[14] Lo salverò, perché a me si è affidato;
lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome.

[15] Mi invocherà e gli darò risposta;
presso di lui sarò nella sventura,
lo salverò e lo renderò glorioso.

[16] Lo sazierò di lunghi giorni
e gli mostrerò la mia salvezza.

Questo si chiede all’amante sempre gravido di debiti. Gli si affida la nostalgia di Dio, il braccio armato della Sua attesa.
28
Mag

‘Questi disegni sono fatti per restituire non solo quello che si sa, ma anche e soprattutto quello che non si sa’ E.G.

‘Ogni fossile – il più piccolo così come il più grande – ha la proprietà di generare immediatamente attorno a sé un suolo, il cielo e l’orizzonte presenti’.

Una disciplina dell’immaginazione sarebbe persino salutare. Dicono che la fantasia sia una prerogativa di pochi, credo piuttosto il contrario e che tanti sfidino poco o niente le proprie vite perché già confortati da fantasie profonde che facilmente si sostituiscono al pulsare più o meno regolare della lancetta ventricolare.

I luoghi più profondi che ospitano tali misteri regalano di tanto in tanto ritrovamenti polverosi. Possiamo osservali, ridisegnarli, custodirli, costruire il paesaggio che essi nascondono, orgogliosamente senza il loro assenso. Ci raccontano le nostre proiezioni, il conforto delle nostre stesse code da inseguire, il riflesso nello specchio che il felino non riesce ad addomesticare.

27
Mag

Una vocazione, un compromesso, una disciplina

Lasciate tutto

Lasciate Dada

Lasciate la moglie, lasciate l’amante

Lasciate le paure e le speranze

Seminate i figli davanti al bosco

Lasciate la preda per l’ombra

Lasciate una vita agiata, quanto vi spacciano per una buona posizione

Andate per le strade.

A. Breton